di Andrea Pachetti
La pubblicazione di nuovi racconti legati al Ciclo della Terra Morente su Urania mi fornisce l'ennesima occasione per riflettere sul senso dell'attuale narrativa fantasy, riferendomi nuovamente a Vance e alle opere classiche in genere. Come ho già avuto modo di affermare in passato, quando sono triste di solito leggo qualche passo di un romanzo di Jack Vance. Spesso càpita che da un paragrafo finisca per terminare l'intero capitolo, poi il libro stesso. Ciò per dire che Vance nei suoi romanzi più ispirati appare ai miei occhi come uno dei più grandi narratori del Novecento, sebbene io tenda a lasciare questo genere di giudizi a critici più talentuosi del sottoscritto.
Il punto della questione è che, come diverse persone che conosco (e magari anche molti di coloro che leggono il blog per caso), la mia vita è stata intrecciata a doppio filo col cosiddetto genere fantasy, sia nella sua forma primaria e puramente narrativa, sia nelle forme derivate che vanno dai giochi di ruolo ai videogame.
Ho avuto la fortuna di entrare in contatto in giovane età con alcuni dei romanzi che molti cultori ritengono capisaldi del genere, La Storia Infinita e Il Signore degli Anelli: personalmente faccio una gran fatica a considerare tali libri parte effettiva del "genere" fantasy, per motivi che esporrò tra poco e che spero risulteranno sufficientemente convincenti.
Dal mio punto di vista, la creazione (di solito a posteriori) di un genere, la sua evoluzione e la canonizzazione dei temi prìncipi che lo caratterizzano sono tutte operazioni rischiose, che possono arrivare a minare alla radice qualunque velleità narrativa: è un processo che ha ragioni meramente economiche, serve cioè a collocare in un preciso settore commerciale il prodotto che diventa esclusivamente di consumo, con gran gioia di tutti coloro che poi guadagnano in questa filiera.
È contento il giovane critico letterario online che può berciare utilizzando paroloni; contento il mercante di libri che può collocare il volume nell'apposito settore, sapendo che venderà di sicuro; contento il fan sciocco che, grazie al paraocchi che si autoinfligge, assume il ruolo standard di ultima ruota del carro, andando a foraggiare col suo denaro l'inutile industria letteraria della mediocrità. Ma contento soprattutto l'autore che continuerà a proporre temi triti e ritriti, facendo ben poca fatica.
Il fanboy del fantasy compra ogni uscita del proprio genere preferito snobbando qualunque altra offerta parallela sul mercato, semplicemente perché non corrisponde ai "canoni" di autolimitazione che si è voluto imporre, vista la naturale tendenza verso la pigrizia e il conservatorismo. Per un banale discorso statistico, in ogni produzione letteraria esistono cose ben scritte e altre invece mal riuscite: concentrarsi su un singolo àmbito è sempre deleterio, poiché l'unico risultato che si ottiene è l'essere seppelliti da tonnellate di brutture, senza considerare poi tutto il tempo perso a leggere libri di scarsa qualità o quantomeno trascurabili.
È sempre possibile analizzare le rappresentazioni artistiche/sociali coeve o antecedenti, da cui un dato genere si è sviluppato: così come il genere cinematografico del poliziottesco deriva dalla corruzione di alcuni temi del noir/hard boiled americano e altri del polar francese, anche il fantasy ha dei padri. Alcuni risultano progenitori ancestrali, mentre altri sono avi ben più prossimi, illustri e non.
Analizzando l'evoluzione dei generi in prospettiva storica si nota come questi, data la loro natura squisitamente popolare e niente affatto accademica (per fortuna, aggiungo), risentano del sentire sociale del momento e quindi siano soggetti a periodici cali di interesse. La science fiction di fatto ha avuto il suo massimo splendore nel momento in cui vi era l'entusiasmo postbellico: uno slancio speculativo verso il futuro, il cui immaginario è stato poi distrutto dalla "conquista della Luna". Da quel momento ci son stati inviluppi sempre più introspettivi, fino all'effimero successo del cyberpunk durante i primi anni Ottanta, subito collassato quando la realtà informatica ha superato le fantasie più azzardate degli scrittori.
Nei dibattiti che leggo online, spesso mi capita di vedere i brontolii degli appassionati di fantascienza, che (col solito fare nostalgico) si lamentano dei "bei tempi andati" in cui si trovavano scaffali e scaffali pieni di SF, mentre adesso è "tutto draghi, vampiri e incantesimi", dimostrando con questa analisi tutta la loro superficialità. Il fantasy in questo è semplicemente più fortunato poiché, seppure in forma volgare, attinge comunque a delle radici mitiche ("religiose" se vogliamo, nel senso più ampio del termine) che arrivano sempre a toccare, se non a manipolare del tutto, archetipi propri d'ogni essere umano. Dalla tradizione orale del Mito, al racconto popolare d'ambito fantastico, fino a giungere alla fiaba per fanciulli[1] il passo risulta in fondo abbastanza breve.
Mentre quindi autori come Tolkien e Ende si rifanno esplicitamente (e con grande consapevolezza) alla tradizione epico-mitica e a quella fiabesca, ho l'impressione che il vero nucleo generatore della struttura fantasy sia piuttosto da ricercare nel pugno d'autori pulp che diede origine a quella che viene chiamata spesso Sword & Sorcery: un genere sanguigno, di matrice popolare, ma capace di slanci emotivi e possenti così come di profonde riflessioni esistenziali. Moorcock si è spesso prodigato in invettive anti-Tolkien[2] e il suo punto di vista è assai comprensibile, dato che l'approccio di questi due autori verso la narrativa è talmente diverso (spesso in contrasto, se non del tutto all'opposto) da vanificare qualunque inserimento forzato nello stesso "genere".
Il problema con Tolkien e la cosiddetta "High Fantasy" è che il successo di vendite dei paperback americani de Il Signore degli Anelli aveva scatenato nel corso degli anni un gran numero di cosiddetti epigoni e imitatori di bassa lega, che hanno cercato di carpire tutti quelli ingredienti che (secondo loro) andavano a comporre la giusta ricetta di successo per garantire alte vendite. Fallendo miseramente nel primo caso, ma purtroppo non nel secondo. Un "genere" dunque che fu creato artificialmente per cannibalizzazione e semplificazione.
Comprare una saga fantasy attuale, comprese tutte le derivazioni urban e vampiriche servite a confondere temporaneamente le acque, significa troppo spesso cibare un sistema di mediocrità generalizzata, atta a produrre esclusivamente prodotti e introiti. È cioè il mero processo imitativo a controllare l'atto creativo, per cucinare la merendina perfetta ad alto contenuto calorico (ma assai poco nutriente) che verrà sgranocchiata solo dal fanboy di turno, avulso a qualunque contaminazione e complicazione mentale[3].
In un mondo ormai di fatto abituato a ritmi frenetici e che gradisce farsi cullare nei suoi bisogni da altri media ben più "veloci" della narrativa, dovrebbero essere pubblicati pochissimi libri, accuratamente selezionati. Invece, in Italia come nel resto del mondo, gli scrittori tendono paradossalmente a essere più dei loro lettori. Quello del lettore puro è davvero un ruolo in via di estinzione, dato che quasi sempre è stato sostituito da una figura intermedia, dall'aspetto particolarmente patetico: si tratta dello scrittore wannabe[4] che commenta (sempre in positivo, ovvio) amici e amici-più-in-alto nella scala gerarchica dei fallimenti, sperando di essere ricambiato in qualche modo, di avere una contropartita. Sperando cioè che la sua autoproduzione in 500 copie sia letta da qualche povero cristo.
Mi piacerebbe dunque che gli scrittori avessero maggiori ambizioni e che i lettori di genere arrivassero a possedere un minimo di buon gusto, quel tanto che serve ad ampliarne gli orizzonti ristretti. Ogni volta che qualcuno osa proporre il "romanzo epico definitivo", vorrei chiedergli: "Ma tu sei davvero convinto di poter scrivere meglio di Vance, meglio di Leiber, meglio di Howard?" Vomitando trilogie a manetta, generando mondi senza rispettare la mitopoiesi, il tuo "lavoro" purtroppo non fa per me. Ho ancora troppo Vance da leggere, mi spiace davvero.
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[1] Ritengo che una trattazione seria dell'argomento sia impossibile in uno spazio così limitato e rimando agli studi di Marie-Luise von Franz. Si veda ad esempio "Le fiabe interpretate." Torino, Bollati Boringhieri.
[2] Ci si riferisce soprattutto al saggio "Epic Pooh", del 1978.
[3] In questo senso, basta notare la follia presente nei commenti assai poco lungimiranti dei collezionisti di fantascienza, che si lanciano in invettive pretestuose ogni volta che sulle collane i curatori "osano" proporre romanzi "non canonici", come la gradevole raccolta di Edogawa Ranpo pubblicata su Urania Collezione nel 2011.
[4] Si vedano in proposito i (divertiti) commenti di Umberto Eco, relativi agli scrittori di "quarta dimensione", in "Il costume di casa." Milano, Bompiani e più di recente in "La memoria vegetale e altri scritti di bibliofilia." Milano, Bompiani.
Mi son sempre divertito tanto a leggere "Epic Pooh"; condivisibile o no il commento del buon "Michael John" resta esilerante.
RispondiEliminaPenso che il problema odierno comunque sia, più che altro, la tendenza ad avvicinarsi alla scrittura pianificando già da prima l'ambito in cui muoversi e il target di riferimento. Si parla di una pratica che dovrebbe essere idealmente vicina ad una necessità, la voltà di narrare una storia dovrebbe precedere qualsiasi anelito editoriale.
Bisogna anche dire che gli editori, oggi come oggi, non aiutano e/o non sono, sovente, nemmeno in condizione di farlo.
Il campo dell'editoria (almeno quella cartacea) non vive un felice periodo e di conseguenza non si può permettere di rischiare più di tanto.
Le nuove proposte non sono poi molte, comunque meno di un tempo, e ti posso assicurare (grazie a vicende a cui ho assistito in prima persona) che le condizioni imposte ai neofiti sono spesso vessatorie (sia a livello di richieste di investimenti iniziali considerevoli a scopo cautelativo, sia per quanto riguarda "editing" del testo).
Girano pochi soldi, l'interesse è relativo visti tutti i nuovi passatempi, la scrittura fatica ad adattarsi alle abitudini "fast" della contemporaneità e quindi tutti i passaggi e momenti legati in qualche modo a questo mondo si complicano.
Comunque io voglio essere positivo: credo che la letteratura (in ogni sua forma e genere) non verrà mai abbandonata dall'umanità e che questo sia solo un periodo di transizione utile a farci capire pienamente le potenzialità del mezzo digitale nel contesto letterario.
Penso che tendenze come l'Urban fantasy o il cyberpunk siano dovute anche ad un'esigenza di "ibridazione". Un desiderio di mescolare gli archetipi (tali o spacciati per tali) per cercare di arrivare ad un nuovo alfabeto espressivo utile a descrivere i tempi (incasinati) che stiamo vivendo.
Alla fine la canonizzazione di un genere resta sempre un gioco (anche divertente e piacevole secondo me) per accademici, un Autore dovrebbe sbattersene e continuare solo a scrivere le sue storie.
Interessanti le osservazioni su mercato/wannabe/fan ecc. Conosco poco di fantasy e non conosco Ende, ma in effetti il legame fantasy-Tolkien è sempre sembrato anche a me molto superficiale. Al di là del fatto ovvio che molta fantasy ha pescato alcune cose che credeva di aver riconosciuto in Tolkien.
RispondiEliminaIn particolare, anche se non ho approfondito questo aspetto, e senza negare ciò che lo ancorava al suo presente, ho sempre considerato Tolkien un autore molto in dialogo con tutto un'immaginario britannico tardoromantico: William Morris, i preraffaelliti, ma anche Yeats eccetera (loro stessi pescavano d'altronde nel mito, negli archetipi eccetera). Il medioevo fantastico e tutto quello che comporta quantomeno hanno origine lì. Un po' come il Gattopardo di Tomasi è per molti aspetti decisamente in dialogo con autori di mezzo secolo prima: Verga, Capuana, De Roberto, un certo Pirandello ecc.
Insomma Tolkien lo vedo più come l'ultimo (grande) figlio di quella cultura piuttosto che come il padre della fantasy (sono d'accordo infatti anche sul ruolo del pulp). Anche certa arte che gli gravita intorno (Froud e Lee, per esempio) mi pare non a caso per molti aspetti più vicina a Arthur Rackham che a Vallejo, per dire. Ma forse la sto facendo troppo schematica.