31 luglio 2011

Alcune variazioni nello spettro ludo-cromatico delle avventure interattive

di Andrea Pachetti

L'analisi del concetto di colore è senz'altro una complicata materia interdisciplinare, che può attraversare ogni settore del sapere: dagli àmbiti più scientifici e rigorosi (l'antropologia culturale e la filosofia metafisica) a concetti più pragmatici e quotidiani (psicologia comportamentale, marketing, pubblicità), fino a giungere alle risibili pseudo-scienze di confine.

Una seria trattazione del tema ovviamente esula dagli intenti di un breve post[1] da blog: sarà sufficiente poter utilizzare come premessa un dualismo di base, secondo il quale il colore è da ritenersi certo una pura percezione visiva, percezione che però va considerata come un semplice elemento, inserito in un processo più ampio di sollecitazioni simbolico-sensoriali capaci di coinvolgere molti altri fattori, posti su vari livelli di conoscenza.

Il colore è strettamente legato alle suggestioni offerte da ogni forma di produzione artistica e visiva; in questo senso, anche i videogiochi fanno parte del rapporto comunicativo che sussiste tra l'oggetto e l'osservatore, che in questo caso specifico cessa di essere il semplice fruitore passivo dell'opera, per diventarne uno degli attori protagonisti.

Si può notare come l'evoluzione hardware abbia pesantemente condizionato da sempre l'attività dei game-designer: consci di quanto il colore potesse attrarre (oppure far fuggire) il possibile pubblico, si è passati dai primi esperimenti monocromatici[2] a palette più o meno brillanti e bilanciate di 4, 8, 16, 32, 64, 256 colori, per poi giungere alla perfezione fotografica, con l'aumentare in parallelo delle risoluzioni a schermo. Citando un esempio particolarmente evidente, di certo giocare ai videogiochi sui Personal Computer provvisti solo di scheda CGA (320x200, due palette di 4 colori) condizionava pesantemente in negativo l'intera esperienza ludica.

Una volta raggiunta la perfezione tecnica, si è poi iniziato un percorso per certi versi introspettivo, così come avvenuto nella pittura e nelle altre forme d'arte visuali: il colore è passato cioè da semplice mezzo utile alla rappresentazione estetica a portatore di sensazioni, emozioni e comunicazioni ben più stratificate. Due esempi particolarmente utili a dimostrare questa tendenza sono Spooks di Erin Robinson e The Majesty of Colors di Gregory Weir, giochi prodotti in questi ultimi anni dalla sempre fertile scena indie.

Pur nella diversità del genere, entrambi gli autori utilizzano il passaggio dal mondo in bianco e nero a quello del colore come parte integrante del loro design di gioco. Nello stesso modo in cui percepiamo lontani (e forse ormai spenti, morti) un antico film muto o delle vecchie foto rovinate dal tempo, provando questi giochi si noterà quanto la presenza del colore assuma proprio il significato simbolico di "vita".


Spooks è una degna erede della tradizione Lucas nelle avventure grafiche: creata con l'Adventure Game Studio ci mette nei panni di Mortia, una piccola ghoul alle prese con l'importante missione di "salvare" un pesce rosso (che chiamerà appunto "Spooks"), alla ricerca del significato ultimo della vita.

In un'ambientazione a toni di grigio che strizza l'occhio sia a Tim Burton sia alle recenti eroine dark-emo come Emily the Strange e Lenore, è subito evidente come il pesciolino subito risulti l'unico elemento a colori del gioco. A poco a poco, proprio mentre Mortia inizierà a comprendere il senso della sua non-esistenza, altri segnali di "vita" compariranno intorno a lei, verso un cammino iniziatico di redenzione-realizzazione che scoprirà solo chi riuscirà a concludere l'avventura. I più curiosi vedranno poi un interessante parallelo simbolico col percorso acquatico compiuto dalla protagonista di Today I die.


The Majesty of Colors si presenta invece come un'avventura dinamica a bivi realizzata in Flash, basata su un albero di scelte e di finali multipli che potremmo definire "morali", relativi alle percezioni sempre più elaborate del mostruoso e tentacolare alter ego sottomarino che interpretiamo.

Anche in questo caso torna il tema ricorrente dell'acqua come elemento separatore tra la vita e la morte e, in particolare, è utile segnalare il momento emozionalmente più forte di tutta l'esperienza, per concludere la nostra analisi: la situazione iniziale presenta un mondo completamene incolore, con il gioco che di fatto comincia solo quando il mostro cattura uno dei palloncini che vagano nel cielo e lo conduce verso i suoi occhi. Osservandolo, acquisisce la reale percezione di ciò che lo circonda. Si innamora, appunto, della maestosità dei colori. Vuole vivere. Giocare. Come tutti noi, in fondo.

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[1] Esiste una vastissima letteratura a riguardo, che va dalle suggestioni classiche di Wittgenstein e Goethe fino alle interessanti "monografie cromatiche" del medievalista francese Michel Pastoreau. Un'interessante introduzione al valore simbolico del colore può essere l'articolo "Le variazioni antropologico-culturali dei significati simbolici dei colori" di Caroline Pagani, disponibile in pdf.

[2] Uno dei modi tipici di "scimmiottare" il colore su schermi monocromatici era quello di apporre sul monitor delle mascherine plastificate trasparenti colorate, tecnica usata per esempio in coin-op come Space Invaders e nei giochi per la console Vectrex.

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